Opere a Colori

Papà e Mamma

La vecchia cantina, dove era riposto di tutto: Botti di vino, legna da ardere, frutta secca nel cassettone, pomodori appesi sul soffitto, scorte di agli e cipolle, sacchi di grano e pannocchie di mais, zucche gialle, cestini di mandorle e nocciole, mele e melograni stese su tavole, grappoli d’uva appesi ad appassire, legumi, prosciutti, guanciali e salsicce. Un miscuglio di aromie odori che ti assalivano appena aperta la porta sbilenca, tenuta insieme da un capace catenaccio. E da ultimo, l’odore del pomodoro appena imbottigliato, fatto da mamm, aiutata da mio padre di rientro dalla campagna. 

Una scena colta al volo, un istante caldo e intimo della giornata dei miei cari;

Natività a Cori

Molti artisti nel corso dei secoli hanno dipinto una natività. Ognuno di loronella maggior parte dei casi, si è ispirato alla tradizione evangelica classica. La mia natività esce fuori dai soliti canoni biblici; è solare coloratissima e diurna. I personaggi sono persone del mio paese, a cominciare da maria, una ventenne di nome Monica. Giuseppe e’ un pastore del luogo e i doni recati al bambino Gesù sono prodotti del paese: pane olive uva.

Il tutto con il paese sullo sfondo. E’ la mia natività; semplice, viva, colorata vivacemente e piena di luce.

Cosi ho voluto crearla, riempiendo di solarità il momento più straordinario della storia dell’uomo, la nascita del figlio di Dio, che con la sua venuta sulla terra, ha squarciato le tenebre che la riempivano.

Il Sarto Bacolini

Il sarto “Bacolini”: un nomignolo affibbiatogli chissà da chi.

Bacolini, personaggio mitico per me e tutti quelli che hanno avuto a che fare con lui nel paese. Tre pacchetti di sigarette al giorno con le dita che le reggono nere come il catrame.

La sua bocca eternamente serrata sù di una sigaretta, rigorosamente “alfa” senza filtro almeno finquando le hanno prodotte. E’ lui che ha cucito il mio primo paio di pantalonilunghi.

Avevo 12 anni e lo ricordo come se fosse ora: Azzurri, di rasatello. 

Mi sentivo un Dio: pantaloni lunghi, cintura di cuoio e scarponcini di vacchetta con i chiodi sotto per non far consumare il cuoio.

Il miscuglio di odori di quella piccola bottega con i figurini di carta appesi alle pareti, i rocchetti di filo per cucire infilati, impregnano ancora il mio olfatto.

Un’altra cosa che non dimenticherò mai: la melodia che traeva fuori pizzicando le corde della sua chitarra. 

Suonava come Segovia era ed è celestiale il tocco della sua mano sullo strumento.

 

La raccolta delle olive

Una fatica forte raccogliere i frutti dell’ulivo, che battuto a mano dall’albero, cadeva in terra. 

Le donne le mettevano nel canestrino a mani nude: ad una ad una, affondando le dita nell’erba bagnata dalla brina fredda, riempivano e versavano nel sacco di iuta.

Fatica, curvate per ore con la faccia a terra, ma con negli occhi la forza della serenità e la gioia del raccolto dopo l’attesa e poi la macinatura nel frantoio.

Finalmente l’oro giallo, che ripagava le fatiche e donava vita e benessere per tutto l’anno.

Il colore, il sapore ed il profumo di quell’olio, con il quale come rito propiziatorio, nell’immancabile stufa a legna del frantoio, si faceva la “bruschetta” e si innaffiava con quel dono divino dal sapore unico.

 

La Briscola

La trattoria e cantina, un monolocale i pochi metri con alcuni tavolini messi alla rinfusa: sedie di paglia artigianale, buon vino.

La partita a briscola già animata di per sè e da una parte l’immancabile  “osservatore” che non riusciva a stare zitto  esprimendo il suo parere ad ogni giocatore.

Come quello che sa, riuscendo ad infuocare gli animi qualora ce ne fosse stato bisogno.

Stefano  l’oste, passera secondo me alla storia perchè da lui qualunque cosa si ordinasse da mangiare doveva essere tutto uguale per tutti: primo piatto, stesso per tutti, secondo e contorno stesso per tutti.

Era la sua regola, perchè con due o tre ordinazioni diverse l’una dall’altra lui andava in confusione e non capiva piu’ niente .

E’ ancora in attività, forse perchè non ha mai avuto problemi con le ordinazioni ?

Angelino e Neno

Compagni inseparabili.

Tutti i giorni stessa ora alla frascuccia per il mezzo litro di vino eil panino con il guanciale: partita a tresette, con tanto di discussione accesa, perchè nessuno dei due ci stava a perdere dato che la posta in palio era la consumazione.

Poi immancabimente, quello che aveva perso diceva all’altro che era stata solo una questione di fortuna: di solito vinceva Angelino.

Quelle poche volte che vinceva Neno allora la sua frase era: “sono troppo bravo”. 

Finita la partita, amici più di prima e appuntamento al giorno dopo per la rivincita.

 

Da Checchino

L’osteria dove mio padre (con i capelli bianchi e camicia blu di spalle detto “Pirolitto”) Riziero il “Bedrammo”, baschetto e camicia giallo/rossa,  Angelo detto “Cannone” e Torquato detto “Pannocchia” giocavano alla “passatella” e alla “morra”.

Ore passate in letizia e meritato riposo, il pomeriggio, dopo le fatiche della campagna.

Una pergola immensa costellata di grappoli d’uva a pizzutello nero, il profumo del vino fresco di grotta. Il brusio delle conversazioni davanti alla “foglietta” .

Ricordo sereno vedere mio padre ridere: è forte in me l’immagine della gente che davanti ad un bicchiere di vino, in compagnia, si ritrova nei ritmi lenti e sacri dei giorni vissuti.

Il ritorno

Tutti lo chiamavano “Milio”, la sua mula Rosina, l’aspettavano tutte le sere al fontanile della piazza del paese. Credevano fosse muto,  era invece una persona serafica.

I suoi movimenti erano lenti come un bradipo, e parlava in modo sommesso e raro.

Lui e Rosina  erano un tutt’uno, quasi respiravano insieme. Ricordo che mentre la mula si abbeverava, anche noi ragazzi agitando l’acqua con le mani, ci dissetavamo in gruppo cantando una tiritera: Acqua sorgente, ci beve il serpente, ci beve Dio, ci bevo anche io” . Era un personaggio di quegli anni perchè faceva il vettorale . trasportava nelle case e negli strertti vicoli del paese la legna da ardere; anche la calce, la pozzolana ed i sassi per costruire.

Due bigonci caricati sul basto della sua Rosina, con il fondo apribile per scaricare sul posto il materiale tirandolo con una corda.

Pasquale e Titta a Tirinsanola

Due pastori: uno di mucche e l’altro di maiali.

Esperti  fungaioli e dei segreti della montagna con le sue regole da rispettare.

Un momento raro quello di vederli insieme a dialogare.

Si  urlavano sempre da una montagna all’altra, chiedendosi l’un l’altro se avessero visto tale mucca o tale maiale sfuggito al gruppo o mancante all’abbeverata al pozzo.

Gente rude, abituata a lottare con la natura e la montagna che non ti regala nulla.

Nello sguardo dei loro visi sferzati dal vento e segnati dal sole si leggevano una dignità e una fierezza uniche.

 

La cacciarella

Si chiamava Armando detto “la fattora”. 

Quando gli ho detto se poteva prepararmi una “cacciarella” come si faceva una volta non si e’ fatto pregare;

L’ho trovato sotto il pergolato con attorno a se le sue cose:

la roncola, il tascapane, la sega per potare, la zappetta e il canestro ripieno di splendide ciliege di montagna, poggiate sul classico e immancabile ciocco di legno.

Quando si tornava dalla campagna nel mese di maggio, con le prime ciliegie mature si faceva “la cacciarella” e si portava a casa.

Consisteva in una canna di canneto spaccata a croce per la lunghezza di circa 50 cm, nelle 4 fenditure venivano inserite a due a due le ciliegie con il picciolo unito, le due sulle altre e cosi via fino all’orlo. 

Formavano una cascata di circa 5 kg da piluccare con i compagni di giochi.

Sapore diverso e ingegno contadino che e’ rimasto ancora oggi.

 

Il compagno Augusto

Leggeva soltanto “L’unità”.

Un gran paio di baffi che arrotolava continuamente con le mani tirandoli all’insù.

Aria Burbera, seriosa, sguardo austero e penetrante da dotto:

l’immancabile berretta felpata blu con visiera.

Dietro quell’apparenza era un buono, parlava sempre di politica, perchè lui leggeva e quindi era uno dei contadini più eruditi e ascoltati, come uno da cui si apprendono tante cose non conosciute.

Per noi ragazzi era una figura inavvicinabile, ci diceva “a regà…” ed il tono non lasciava scampo: per questo si scommetteva sù chi gli avesse trovato il coraggio di tirargli i baffi mentre leggeva il giornale.

Era il massimo della temerarietà, chi ci sarebbe riuscito sarebbe stato l’eroe per tutto l’anno e avrebbe goduto del privilegio di capobanda.

Pomeriggio Estivo

L’aria calda delle estati del sessanta:

L’acqua che sgorga fresca dalla fontana di “piazzetta monte pio”.

Nelle case l’acqua veniva portata attingendola dalla cannella con la conca di rame, facendo la fila per ore e ore.

In quella vasca che ci sembrava immensa, giocavamo con le barche, pezzi di legno mossi dalla spinta delle mani e mo’ di remo nell’acqua.

Il profumo del fieno fresco sul basto del somarello, il rientro dalla campagna con la frutta nel canestro;

La donna che rimane assopita sulla sedia, le comari che chiacchieravano del piu’ e del meno.

C’era L’odore del pomodoro passato, messo sopra le tavole con bordo ad asciugare al sole, girato di tanto in tanto fino a diventare conserva.

Per l’aria impregnata di tante mescolanze di effluvi, sentivi quello degli spicchi di mela,di pesca, di fichi, che si spandevano nella piazzetta sotto i raggi cocenti per farne poi frutta secca da mangiare nei lunghi inverni.

Bontà semplici: laboriosità contadina della gente che prendeva dalla natura tutto quello che generosamente elargiva.

 

La vendemmia

Era sempre una gran festa il giorno della vendemmia, il viso dei miei genitori aveva una luce diversa in quella occasione.

L’odeore dell’uva pigiata nei bigonci, inconfondibile, richiamava moltitudini di api, attratte dal mosto che affiorava in superficie.

Una fatica enorme, mitigata dalla gioia del raccolto e dal giallo-oro dei grappoli, presagio di un vino generoso e dalla gradazione alta.

E’ restato impresso in me il gesto della mamma che a fine raccolto, facendosi il segno della croce, ringraziava il cielo per il dono della terra.

Papà ad ogni filare lasciava dei grapoli per un eventuale passante: avrebbe trovato di che nutrirsi.

 

La bevuta a garganella

Lui lo chiamavano “Cafolla” : un segaligno, sempre con i suoi due cani spinoni, secchi come lui.

L’altro aveva il nomignolo di “Timoscenko” perchè parlava sempre della russia.

Due maestri del bere in quel modo: mi incantava il gesto ed il rumoredel gorgoglio che faceva la gola, mentre il vino veniva tracannato con una maestria incredibile dalla “copelletta” (un piccolo barilotto di legno da 3 o 5 litri).

Il travaso avveniva incastrando nel foro del barilotto un pezzo di canna del diametro esatto, onde evitare di non far uscire nemmeno una goccia di quel nettare.

Ne usciva un rivolo di vino che prendeva forma intrecciata e poi , al volo senza accostare la bocca al getto, veniva bevuto “alla garganella”

Il forno a legna

Le chiamavo “le grazielle”: due fornaie di una volta.

E’ stato l’ultimo forno a legna del mio paese. Ricordo mia madre, quanto il pane veniva lavorato a casa nella madia, poi la notte alle tre, la fornaia passava casa per casa ad avvisare che il forno era caldo e pronto per infornare.

Sù di una tavola lunga oltre due metri, mamma poneva le forme di pane lievitato, cospargendo la tavola di uno strato di farina per evitare di farle attaccare sul legno.

Poi portava il tutto sulla testa al forno e attendeva la cottura insieme alle altre donne tra un racconto e l’altro.

Infine l’aroma della vita: croccante, caldo, il miracolo di quel pane fatto con il grano della propria terra;

Dodici pagnotte di fragranza e bontà che riempivano la madia in cucina per molti giorni.

 

Al sole

Antonio, Pasquale, Gigetto, Amilcare, Nicola, Sebastiano, Ferruccio e Settimio.

Ogni giorno, ogni raggio di sole, sia in inverno che in estate.

Otto amici per la pelle dall’infanzia; sempre insieme da adulti, da anziani a raccontarsi le piccole cose, dell’aratura, la semina e il raccolto.

Una vita di cose semplici, con i problemi che non diventavano mai più grandi di quello che erano ; si affrontavano con la forza e la volonta’ della gente di quel tempo, usa a lottare giorno per giorno con dignita’ e perseveranza.

Uniti da un’amicizia a prova di tempo.

 

La donna del latte

“Iole” portava il latte nelle case del paese: chiamava le persone che con un recipienti, scendevano a prendere il quarto di latte.

Personaggio in tutto Iole:

dall’età indefinita, indossava sempre un vestito verde, cinto di un grembiule allacciato di sghimbescio.

Una crocchia di capelli riuniti dietro la nuca ed un paio di scarponcini di gomma con dei bottoni mai abbottonati, sempre uguale come il suo gesto nel versare il liquido bianco dalla stagna da dove estraeva la misura da versare.

Il tutto accompagnato da una specie di ghigno benevolo, che assumeva a labbra serrate mentre compiva l’operazione di mescita.

Poi ripartiva ponendosi sulla testa in bilico tutto il recipiente per una nuova cliente.

Oltre alla sua immagine, non dimenticherò mai la fragranza di quel latte appena munto.

I mangiatori di trippa

I loro nomignoli erano “Diamante” e “la Ppaiana” sempre insieme:

all’osteria “dalla vedova” campeggiava un cartello con scritto “giovedi trippa” e loro, basco azzurro in testa, due visi rubiconti e coloriti, parecchi litri di vino ed il fumante piatto di porzione attesa tutta la settimana come un rito da non mancare tutto l’anno.

Gente allegra, dotata del senso arguto del contadino l’uno e del pastore l’altro.

Una simbiosi perfetta tra pianura e montagna.

 

La ferratura a San Rocco

Il maniscalco lo chiamavano “il generale”: aveva una bottega a San Rocco dove c’era di tutto.

Nera, piena di carbone e un fuoco sempre acceso, un grosso mantice che sbuffava aria sulla brasca che si animava su di un pezzo di ferro.

Lui a martellate sull’incudine, lo forgiava come se fosse stato una materia morbida: la mazza batteva col ritmo, un colpo sul ferro e uno che ricadeva sull’incudine.

Cosi come una danza, il tintinnio di battiti metallici, prendeva corpo un perfetto ferro d’asino o mulo;

Poi lo sfrigolio di vapore che si sprigionava dal recipiente d’acqua, dove veniva immerso il ferro ancora rosso di fuoco per farlo raffreddare.

La cassetta degli attrezzi vicino, pronto a inchiodare il ferro sull’unghia dell’asino o del mulo.

Così aiutato dal padrone dell’animale che lo aiutava alzandogli una zampa per volta, nel tipico gesto della mano sul fianco al termine della ferratura.

Angelo e Felicetta

Lui me lo ricordo per quel continuo raspare in gola, come un mugugno, che ripeteva sempre mentre costruiva abilmente i suoi canestri intrecciando vimini che prendevano forma il tocco veloce e sicuro delle dita.

Lei in silenzio, sferruzzava la sua maglia, raramente diceva qualcosa: ogni tanto smetteva e lo guardava con lo sguardo carico di affetto e ammirazione;

Poi ricominciava a tessere la sua calza. 

L’artista invece, ogni tanto si concedeva una pausa: caricava la sua pipa di sambuco, rigorosamente fatta a mano e sbuffava di nuvole di un fumo pestilenziale che ammorbava l’aria tutto intorno.

Poi con il cannello serrato sulle labbra, con gli occhi chiusi per le spire di fumo che lo investivano, riprendeva il lavoro da portare a termine.